Il paese invisibile e il passo per inventarlo

di Roberto Marconi

NOTA DI LETTURA DI Alessio Alessandrini

Un processo di svelamento, di indagine ed emersione del paesaggio, o ancora specificatamente del terzo paesaggio, alla Clément, quello introvabile disabitato e abbandonato dall’uomo, in cui l’assenza dell’attività antropica ha generato un rifugio per la conservazione della diversità biologica ed etica, accende il meccanismo poetico di “il paese invisibile e il passo per inventarlo” di Roberto Marconi, edito da Arcipelago Itaca nel marzo 2023.  

Portare alla luce una serie di identità nascoste, minoritarie, così come una serie di spazialità inaccessibili caratterizza questo originalissimo libro dove geografia e storia, ma anche ecologia e etica,  fanno da padrone e si prendono la scena, come in un palcoscenico a cielo aperto, per rivendicare con fermezza, ma anche con dolcezza, il proprio ruolo di protagonista.

Motore di questo procedimento è sicuramente il linguaggio; un linguaggio ricco di suggestioni e prestiti, immerso in una oralità e in un’aneddotica del quotidiano. Nulla di estemporaneo però, né, dall’altro capo, di artefatto e retoricamente artificioso, semmai una bassa frequenza radiofonica della realtà che assurge a canto e risuona con dignità come un saldo indicatore di direzione.

Il libro è preceduto da una citazione attribuita ad una non meglio conosciuta Cora Bontrimore, (lasciamo al lettore dedurre di chi si tratta), attraverso le cui parole emerge fin dall’avvio come per Roberto la poesia sia una lotta agonica, un dialogo serrato tra parole e immagini, tra vita e morte, di qui una scrittura in forma di frammenti lunghi e prosastici che va narrando e ricostruendo un discorso che ha per tema il paese e la sua storia, ogni paese e la sua storia, con tutta la carica etica, politica, civica, “bioetica” (per usare una parola cara al poeta) che questo comporta: 

tu prendine uno non il primo manco il secondo

di paese prendi il tuo e fai la prova usando né

fiere né rifiuti speciali come son spesso le neo-

imprese: una serie per inventare per diventare

come un cielo in cerca di stelle tutto l’anno in

pratica una comunità di quartiere o libro aperto

quando offrivo ogni sasso in comune seminato

dalla spiaggia o donato dalla ghiaia. Poi venivo

dileggiato. Immagina quanto sarebbe contro-

indicativo governare non sapendo la storia

Certo la storia come traccia viva, come carta di identità, codice di informazioni genetiche, imprescindibili; ma anche la dimensione favolistica trascende la poesia di Roberto;  c’è in diversi testi, infatti, un richiamo a uno spazio-tempo indefinito, ad un’aura dell’immaginario infantile e pura – in parte connaturata probabilmente alla sua esperienza di educatore – come se il paese fosse invisibile perché è qualcosa di cui si ha traccia indelebile all’interno di se stessi, anche se lo si è a poco a poco perduto, dimenticato e, dunque, si va alla ricerca pur trovandosi già dentro. La poesia diviene un lungo camminamento, una mappa per orientarsi o, altresì, per disorientarsi – la poesia d’altronde è pur sempre un dolce imprevisto. Una caratteristica propria dei versi di Roberto Marconi sta nella presenza ossessiva di una toponomastica che è sì familiare ed esistenziale (Potenza Picena) ma che assurge ben presto a emblema generale, universale, simbolico e, dunque, esemplare:

 

la strada è la mente al principio. Siamo a un incrocio:

da una parte c’è la via di chi andava da una che faceva

le carte come prendere un crocifisso per la testa e farlo

diventare pugnale – dall’altra c’era il posto per il carro

della festa dell’uva: ogni anno pareva d’esser scritturato

per un film su d’un circo improvvisato e la croce faceva

le veci del gioco della bottiglia. Brutti scherzi d’altronde

fa il pensiero se non lo pigli solo come un ciglio: allora è

come dire “Contrada Monte Maggio” sarà visitata in salita

per un mese interamente. La poesia è la semina del tempo:

riscrive la vita con un’altra d’arteria: misurarsi con l’ombra

tra una comune edera e la Madonna al gabbio diverrà nostra

prerogativa. Clima di contrada: che ci fai così: impensabili

 

Strumento di questa tessitura originale è il linguaggio per il quale, molto opportunamente, Umberto Piersanti utilizza l’aggettivo qualificativo “raggrumato” riferendolo allo stile, alla forma della scrittura di  Marconi.  Versi lunghi dove si affastellano senza però creare dissonanze: immagini, riflessioni, citazioni, aneddoti; un aggregato composito – per utilizzare un termine preso a prestito dalla chimica – che, però, si miscela assai bene in un registro dall’ampio spettro fonico, che sa farsi lirico ed evocativo ed, altresì, ironico e teso, pur restando lieve e cantabile anche quanto composito. 

Una cifra, una voce tutta sua che si fa distintiva e non accessoria ad un lavoro raffinato e di struggente sensibilità ma anche pieno di entusiasmo in quanto richiama il lettore e lo costringe a guardare fuori, ad alzare il volto, a partecipare anche lui alla ricerca o alla reinvenzione di quel paese che non c’è, perduto nelle nebbie della modernità e della banalità:

 

scriveremo questa salita con questa immensa raggiera di

filari d’uva così bene che niuna niuno l’avrà mai creduta. 

Sarà come vedere ciò che è accecante la primissima volta

come tornare dalla porta d’uscita come non esserci alzati

dall’incanto come non essere visti e rimanere sì contenti:

perché la campagna è la fede che tanto fissa il mare. Sarà

come il popolo che invade le nostre fisime (I. non sapeva

più che nazionalità era) come stare in una terra straniera

doppiamente perché quella parte marchigiana non è delle

Marche: sarà come migrare scrutandosi dalle spalle. Non è

la prima volta ma è quell’attimo di altre mentre anche tu

metti il naso nei miei capelli. Siamo infiniti cerchi dove

il percorso è fin troppo chiaro perché il sole lo sbianca ma

la luce è fatta di tanti colori che torniamo alle sfumature e

quindi la pagina e la terra quasi mancano se non vengono

in soccorso la volpe l’uva la cicala la formica e chi le narra